Aveva voluto fortemente il ritorno di quella manifestazione, solcare il mare per rendere onore alla nostra patrona, santa Giulia, trasportare le reliquie a bordo della sua storica barca, Teresa, con il vescovo e il sindaco al suo fianco, e mostrare a tutti, ancora una volta, il valore inestimabile della tradizione livornese e una profonda fede in Dio.
Era una serata ventosa, soffiava una fredda tramontana, inusuale per essere al 22 di maggio, il pubblico non era numeroso ma, date le avverse condizioni climatiche, non ci aspettavamo diversamente.
Terminate le prime due batterie di gara – che decretavano quali barche avrebbero potuto partecipare alla finale – fu il momento della tanto attesa processione, quando improvvisamente un tuono squarciò il cielo, nefasta introduzione di un gelido acquazzone.
La tribuna si svuotò completamente e la fanfara dell’accademia navale corse a ripararsi sotto i portici della Porta a mare.
Seguivo la scena dall’alto, seduta sopra al davanzale di una finestra, mi sentivo in pena per lui, non tanto per il temporale in arrivo – era abituato a condizioni meteorologiche ben più avverse – quanto per la sicura delusione di veder saltare in aria così tanto lavoro.
Una delle motivazioni per cui teneva così tanto alla santa patrona era perché sua moglie le era devota, la processione la entusiasmava come una bambina.
La statua d’argento della santa veniva temporaneamente posta presso la cantina del Palio Marinaro, che loro gestivano da anni, per poi essere collocata a bordo della Teresa.
In quel breve tempo, lei poteva recitare qualche preghiera in solitudine, godendo di un piccolo privilegio che custodiva gelosamente. Ma quell’anno non era con noi, e non lo sarebbe stata nemmeno nei successivi. Semplicemente non c’era più, ci aveva lasciati in balia della tempesta e non riuscivamo a scorgere un po’ di sereno, non eravamo ugualmente forti a remare senza di lei.
Pensai che quella pioggia fitta fitta fossero le sue lacrime, il dispiacere di non poter dire quella preghiera, il dolore di non poter attendere a terra il suo uomo, come era sempre stato.
Nel momento in cui stavo per piangere anche io, la pioggia cessò. Calò un silenzio inaspettato e delle luci in lontananza disegnarono cerchi colorati tra le acque. Il poetico suono di una sirena annunciò l’arrivo della processione, quel suono per me era non solo il richiamo di casa mia, ma una calda sveglia del cuore, che si riaccese colmo di orgoglio e amore.
L’incresparsi delle onde e l’odore di pioggia trasportavano santa Giulia verso il suo popolo. Mentre un anziano marinaio la ospitava a bordo della sua inaffondabile barca, un soprano intonò le note di una musica – non ricordo quale, ma era sicuramente un’opera di Ennio Morricone –, dando voce a un’atmosfera surreale.
Mentre la Teresa avanzava verso di noi, illuminata di mistero e magia, Livorno ammirava la sua protettrice che, con estrema grazia, quasi come se fluttuasse sospesa tra mare e cielo, venne fermata a fianco del percorso di gara.
Mi sporsi dalla finestra più che potevo per catturare ogni goccia di quel piccolo attimo; sembrava un sogno nel dormiveglia, di quelli che paiono quasi reali, che ci confondono ma ci fanno sentire inebriati, inspiegabilmente felici.
Tutto fu perfetto, per la prima volta dopo tanto tempo, anche se solo per un breve istante.
Quel vecchio uomo di mare conduceva il timone della sua vita con dolcezza e caparbietà, nonostante il dolore che provava, quel dolore che fino a poco prima avevo sentito anche io così sordo e opprimente, e che adesso si era trasformato in forza, la forza di raccontare la sua storia, che inizia così, da un momento eterno nato durante una fine. Questa è la storia di un livornese per eccellenza. Ed è la storia del mio eroe.
SAMIRA DE MARTINO
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